Identità
Ebbene sì sono un mutante.
Non uno di quei mutanti dei racconti di fantascienza con tre braccia, due nasi o cos'altro, comunque un mutante. Dopo la "Bomba" il mio corpo ha ricevuto troppe radiazioni. Pur vivendo tranquillamente come gli altri e all'apparenza non avendo nessun segno della diversità, questa esiste. Mi sono reso conto di poter leggere, anche se con grande sforzo e per pochi momenti, nel pensiero di chi mi sta vicino. Mi arrivano in questi momenti ondate di immagini confuse, sfocate ma decifrabili.
Io ho vissuto con entusiasmo questa situazione del tutto nuova, sono un tecnico di laboratorio e quindi abituato alle novità, alle scoperte scientifiche. Ma non così quasi tutti gli altri sopravvissuti.
Certo non vi sembrerà nemmeno un difetto, anzi, quindi non potete capire perché sia stato dichiarato passibile di morte immediata alla pari di ogni mutante, anche il più orrendo, dal reggente provvisorio. Però provate a pensare a quest'umanità che a malapena oggi, dopo essere rimasta chiusa nei rifugi per cinque anni, sta provando, frastornata, a ricominciare un minimo di vita organizzata di nuovo all'aperto.
Ecco, pensando a una situazione di questo genere, alla paura che serpeggia fra i sopravvissuti verso chi non è uguale, potete proprio condannare del tutto la legge marziale antimutanti promulgata su tutti i territori del Nord? Non credo. Tutto sommato la capisco anch'io che ne sono vittima, però non posso certo aspettare che mi trovino e mi facciano fuori, così ho deciso di andarmene e nel modo più drastico che io conosca, viaggiando nel tempo.
Io ero un tecnico di un laboratorio federale che poco prima del disastro stava studiando l'applicazione finale delle scoperte del dottor Russel, ovviamente in segreto ed è li che sto andando e sarà da lì che partirò.
Se riuscirò ad arrivare.
Se tutto funzionerà.
Se. Se. Se.
Dopo molte ore di viaggio a piedi e giri viziosi per evitare le squadre antimutanti in giro per la città ho raggiunto il laboratorio del bunker sotterraneo entro la zona radioattiva.
Sono dentro finalmente. Da quanto tempo speravo di arrivare qui. Il laboratorio è fornito di un'unità nucleare che funziona senza emettere rumore e all'interno è possibile avere la luce. Non ci sono finestre e così nessuna illuminazione visibile dall'esterno può attirare l'attenzione.
Rifiato per un po' appoggiato contro un pannello di freddo metallo grigio. Incredibile, da qualche parte una macchina ronza ancora lievemente ma in maniera regolare. Il locale è piccolo, strumenti rettangolari rivestono le pareti e un banco è ricoperto di utensili e apparecchiature elettroniche. In un angolo su un telaio metallico è montata una serie di unità collegate da cavi al prototipo sperimentale che adesso devo riattivare.
Riflettendo mentre lavoro incessantemente mi pare curioso aver trascorso venti anni della mia vita in questo posto sottoterra, come tutti i laboratori di ricerca, quasi a presagire gli eventi futuri: le guerre.
Guardo l'orologio, sono passate solo tre ore da quando ho iniziato a tentare di rimettere in moto il lavoro fermo da cinque anni, eppure mi sembra un'eternità.
Il lavoro che mi porterà via di qui, via dall'orrore piano piano continua: cavo dopo cavo, terminale dopo terminale tutto viene reintegrato e riassemblato. Dopo una decina di minuti girando un interruttore una piccola dinamo comincia a ronzare e una serie di spie luminose si accendono ammiccando dall'estremità del prototipo.
Manovro senza fretta alcune manopole per livellare tutte le resistenze.
Improvvisamente il cervello libera la domanda che, dal primo momento in cui ho iniziato a pensare a questa possibilità, è rimasta costretta in fondo, in un angolo.
"Funzionerà?".
Mi trovo automaticamente a rispondermi a voce alta, forse stridula.
"E' molto lontano dalla teoria basilare del lavoro di Russel. Chissà se lui aveva intravisto tutte le possibilità della sua equazione base. Matematicamente, forse, se ne è reso conto ma certo non delle applicazioni pratiche che sarebbero potute scaturire. Come quasi tutti i geni le sue erano semplicemente(?!) speculazioni immateriali, senza risvolti precisi e meditati. Questo prototipo in un certo senso smentirà o confermerà sulla mia pelle il suo ragionamento."
Se sarà possibile o meno viaggiare a ritroso nel tempo è ormai una questione di poche ore. L'unica cosa certa è che non si può determinare il luogo e il momento preciso ma solo convogliarlo in una variabile spazio/tempo che si allarga direttamente proporzionale alla distanza del viaggio. Io voglio andare indietro di almeno quattrocento anni, più o meno nella seconda metà del ventesimo secolo, anno più anno meno, e così mi troverò dentro il corpo di un altro uomo nel raggio di qualche migliaio di chilometri da qui, da Dublino. Spero.
Sono proprio deciso, anche la consapevolezza che la mente del corpo che occuperò cesserà immediatamente di esistere come ampiamente dimostrato dai pochi esperimenti che siamo riusciti a portare a termine prima della bomba. L'intima configurazione delle cellule cerebrali è determinante per ogni sfaccettatura della cosiddetta identità personale, compresi i ricordi. Naturalmente se la nuova personalità si sovrappone a quella già preesistente l'individuo originale scompare. Definitivamente.
Smetto di parlarmi.
Tutto è pronto.
Mi libero degli indumenti e mi collego agli elettrodi e quindi alla macchina. Attendo con tutti i muscoli in una tensione spasmodica lo scatto del relais che mi scaglierà via verso un mondo che spero migliore ma dove, comunque, le mie conoscenze potranno in breve farmi raggiungere i vertici tecnici di quella società.
Quattrocento anni di spazio/tempo volano in una frazione di secondo.
Sono seduto davanti a un tavolo di marmo, su di una sedia girevole di cuoio nero e metallo.
Sono stordito confuso non riesco ad avere sotto controllo i miei sensi. Sono però cosciente del mio viaggio, dell'esperimento riuscito.
Di fronte a me un altro che mi guarda preoccupato. Qualche centinaio di persone sedute silenziose ci guardano da poco distante.
Realizzo che mi trovo su un palco.
Tra me e l'uomo, sul tavolo, c'è un quadrato di legno diviso in ulteriori quadrati più piccoli alternati bianchi e verdi, ne conto otto per lato, con dei pezzi sopra, alcuni neri alcuni avorio, anch'essi di legno e, di fianco al quadrato, uno strano orologio che non ricordo di aver visto nell'enciclopedia del ventesimo secolo studiata per notti e notti e memorizzata nel microchip installato sotto il mio lobo frontale e un foglietto con lettere e numeri.
Dove sono?
Cosa faccio?
Soprattutto chi sono?
Non riesco a capire se posso muovermi o meno. Sembra quasi che tutti aspettino qualcosa da me come se sapessero che sono appena arrivato da quattrocento anni più avanti.
Mi sforzo di non muovermi, fingo un momento di stanchezza e mi copro gli occhi con tutte e due le mani. Sembra che il gesto abbia ancora di più accentuato l'attesa del pubblico.
Ma, allora, è un gesto normale. E' normale essere affaticato o pensoso.
Si, forse pensoso è la soluzione.
Guardo da dietro le dita tutto quello che posso febbrilmente intorno a me.
Maledizione, non riesco a ricordare. Proprio non riesco.
Poi nello stesso istante nel quale ho deciso di chiedere informazioni magari fingendo un malore, la memoria mi esplode.
Scacchi!
Ma certo, sto giocando un match di scacchi. Quel gioco famoso per millenni fra gli uomini prima che i computer, codificando tutto il codificabile, lo uccidessero e lo relegassero a poco più che "divertissement" per amatori delle speculazioni intellettuali e matematiche fini a se stesse.
Scacchi. Che stupido non arrivarci subito.
Nel ventesimo secolo erano un gioco popolarissimo e fra i grandi giocatori si disputavano match per designare chi fosse il più forte al mondo. Match che tenevano con il fiato sospeso moltitudini di appassionati. E io ne stavo giocando uno. Anzi, il pirolino alzato dell'orologio indicava che toccava a me muovere.
Ecco perché il pubblico e il mio avversario...
Ma chi sono? Ci sarà ben scritto da qualche parte il mio nome. E che match starei giocando? Contro chi?
Guardo meglio attorno a me, appeso al bordo del tavolo verso il pubblico c'è un cartello.
Devo guardare senza destare impressioni strane. Mi frugo in tasca, tocco un fazzoletto, lo estraggo e lo lascio cadere.
Mi chino per raccoglierlo e leggo.
"Robert Fischer".
Un po' più sotto.
Rejkjavik, 1972 "Fischer 0 - Spasskij 2".
Vittoria! So chi sono!
Adesso ricordo tutto!
Bobby Fischer all'epoca, era considerato un genio degli scacchi, un innovatore e come tutti gli innovatori sembrava più avanti di anni rispetto agli altri Grandi Maestri.
Per forza.
Sorrido.
Ora devo solo trovare la posizione nella banca dati del microchip.
Non ci vuole molto.
La mia mano si muove, 11...Ch5.
Un genio.
Sorrido ancora.
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