Generosi, gli scacchisti. Capaci di mettere mano al portafogli se si convincono che la causa sia quella giusta. Gente che la beneficenza la fa e non l’aspetta. Gente che se c’è da pagare, paga. A cuor contento.

Che meraviglia.

Un attimo.

Se vi sembra che il ritrattino sia un tantinello fantascientifico è perché si riferisce agli scacchisti del 1911 e non a quelli del XXI secolo. Gli archivi del quotidiano “La Stampa” custodiscono una notiziola, datata 8 novembre 1911, che dà conto di una iniziativa dei signori frequentatori della Società Scacchistica Torinese: il contributo a una sovvenzione lanciata dal giornale per sostenere le famiglie “dei soldati e dei marinai gloriosamente caduti” nella guerra di Libia.

Adesso (suvvia, fate uno sforzo) accantonate le vostre opinioni sui corsi e ricorsi della storia, sul colonialismo, sulla salubrità delle azioni militari, sulla geopolitica internazionale; e immaginate di essere iscritti al circolo così come doveva essere nel 1911. Era stato fondato appena da un anno, esattamente il 3 novembre 1910, e aveva preso casa al “Caffè degli Specchi”, in via dei Mercanti, una delle poche zone di Torino dall’atmosfera medievaleggiante. Probabilmente, fra una partitella e l’altra, i soci si riunirono e dissero massì, facciamolo anche noi. Parteciparono in ventisei. Con una lira a testa.

L’elenco dei sottoscrittori riporta i nomi protostorici dello scacchismo subalpino: Ivaldi, Cecchetti, Momigliano, Kaminke. Non manca il titolo di studio, che all’epoca veniva brandito come uno scalpello per ribadire in via definitiva il proprio posto nel mondo: una sfilza di dott. prof. avv. ing. C’è anche un “capitano” e persino un nobiluomo, il conte Boetti di Cavagnolo.

Come cambiano i tempi. Oggi i giocatori più in vista della Scacchistica, quelli che finiscono sui media, sono giovanotti che per ragioni di età non hanno ancora la laurea e, a volte, nemmeno il diploma di scuola superiore. Quanto alla pecunia, la situazione è capovolta. Gli scacchisti (e non solo quelli subalpini: tutti, senza eccezioni) chiedono fondi e sovvenzioni come gli uccellini pigolanti nel nido chiedono il cibo alla mamma. Urge l’intervento dello sponsor, della Fsi, della Fide, dello Stato, dell’otto-per-mille, della Regione, del Comune, dell’Onu, della Croce Rossa, del Wwf, degli Escursionisti Esteri, degli Alcolisti Anonimi perché i costi sono alti, non si può organizzare, non si può ingaggiare, non si può fare. Ed è dolorosamente vero. Ogni cosa è diventata troppo cara. E le crisi economiche, politiche e finanziarie stanno mettendo a dura prova anche il mondo degli scacchi.

Questo però non è un discorso di soldi. Si può provare simpatia, antipatia o menefreghismo verso quegli antichi soci. Giocatori che non sfondarono mai a livello nazionale. Elementi della buona borghesia torinese impegnati a coltivare quello che allora era un passatempo per persone colte e agiate. Compassati signori in marsina, cravatta, sigaro e baffoni. Ma con qualcosa che al giorno d’oggi è merce rara. Perché, come scrisse Alessandro Di Giorgio nel libriccino dedicato ai primi novant’anni della Scacchistica, “il nuovo circolo muoveva i primi passi con un fervore di iniziative e di progetti che farebbe sfigurare molti circoli evoluti di oggi”. C’erano insomma l’entusiasmo, l’energia, l’intraprendenza, la voglia di ritrovarsi tutti insieme da qualche parte per combinare qualcosa. C’era spirito di appartenenza.

Ed è una lezione che può tornare utile anche a noialtri.

 

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