Ma il paradosso del baro non è certo un esclusiva del pensiero occidentale. Nel Mahabharata, forse la più vasta opera letteraria dell’intera produzione artistica mondiale, uno dei momenti critici intorno a cui si sviluppa la vicenda, è legato ad una partita a dadi, truccata. 

Il Mahabharata narra la storia della lotta fra due diversi rami di una famiglia reale (Kaurava e Pandava) che si contendono il regno. Ad un certo punto della storia, per derimere un litigio per futili motivi viene organizzata una partita a dadi. Benché i dadi siano palesemente truccati, Yudhisthira, il rappresentante dei Pandava viene invaso febbrilmente dallo spirito del gioco e per due volte perderà tutto: in particolare era stato stabilito che il perdente della seconda partita avrebbe dovuto nascondersi in esilio per dodici anni, fare ritorno il tredicesimo stando nascosto, e se fosse riuscito a celarsi, avrebbe potuto reclamare il riacquisto della propria parte di regno.

Ci interessa notare che al fatto che i dadi siano truccati, non viene data particolare importanza nel proseguo della storia. Durante la partita, invece, è come se i risultati dei dadi truccati non fossero altro che casi particolari di dadi “normali”. Almeno implicitamente, i Pandava sembrano accettare i dadi truccati come una possibilità del reale: accettando di affidare il proprio destino alla sorte, hanno accettato anche la possibilità che lo strumento di espressione del destino fosse manipolato. Se il destino dell’uomo sta nel caso, in un tiro di dadi, può anche stare in un tiro di dadi truccati.

Un ulteriore interessante esempio del paradosso del baro ci viene raccontato da un film americano del 2002 “Il club degli imperatori” del regista Michael Hoffman.

William Hundert è un appassionato insegnante di studi classici che crede nel suo ruolo di formatore. La sua classe del 1976 viene resa complicata dall’arrivo di un nuovo studente dal carattere difficile, Sedgewick Bell, figlio di un importante senatore. Hundert intuisce le possibilità del ragazzo e cerca quindi di stimolarlo e di motivarlo in vari modi. Ogni anno il liceo St. Benedict indice una gara di storia e fare parte dei tre candidati al titolo di “Mr Giulio Cesare” è un grandissimo onore a cui tutti gli allievi ambiscono. Durante la correzione dell’ultima prova il professore si trova di fronte a un dilemma: a Sedgwick Bell, che negli ultimi mesi ha dimostrato un impegno davvero notevole, manca un solo punto per essere il terzo finalista e Hundert si domanda quanto sia lecito assegnargli quel punto in più penalizzando chi ha raggiunto da solo il punteggio necessario. Dopo qualche doloroso minuto di riflessione il professore decide di premiare lo sforzo di Bell. Durante la gara al professor Hundert viene il forte sospetto che Sedgewick Bell stia barando, sospetto che comunica immediatamente al preside. Quest’ultimo, probabilmente intimorito dal potere del senatore Bell, ordina a Hundert di continuare a fare finta di niente. Il professore, scosso, torna al podio e fa al giovane Bell una domanda fuori dal programma scolastico previsto, ma conosciuta dall’altro finalista. Sedgewick Bell sta barando, ma è altrettanto vero anche se non così ovvio è il fatto che anche il Professore Hundert ha barato, ed almeno tre volte. Una prima volta, la più grave, decidendo di aumentare il punteggio di Bell a scapito di quello di un altro, una seconda volta, non denunciando Sedgewick dopo averlo scoperto e la terza volta avvantaggiando deliberatamente uno dei concorrenti. Se la seconda e terza violazione delle regole dipendono molto dal contesto, la volontà del preside di evitare uno scandalo e quella di Hundert di ristabilire in qualche modo giustizia, la prima è figlia delle sole riflessioni di Hundert. Il Professore ha barato e ne è consapevole, egli giustifica la sua infrazione delle regole legandola ad una buona intenzione, quella di premiare l’enorme sforzo di Bell, ma si indigna quando scopre che anche Bell sta barando. In realtà il comportamento di Hundert sembra del tutto equivalente all’atteggiamento di Mondonico che come allenatore giocatore e arbitro decide quando è il momento giusto per fischiare un rigore in favore della sua squadra. Anche la buona intenzione del professor Hundert non regge ad una critica più attenta. È abbastanza ovvio arrivare a sospettare che Hundert non volesse solo premiare gli sforzi di Bell, ma anche i suoi tentativi di aiutarlo. La seconda parte del film in qualche modo sembra avvalorare questa tesi. Sono passati venticinque anni dalla fatidica gara e l’ormai ricco e potente Sedgewick Bell ha deciso di organizzare una “rivincita” della famigerata gara di storia. L’anziano professor Hundert accetta di presenziare e scopre che, anche stavolta, Bell ha cercato di barare. Il suo senso di fallimento nel tentativo di formare Bell è però addolcito dall’affetto che tutti i suoi ex allievi gli dimostrano, facendogli così capire che un singolo fallimento o un singolo successo non bastano per tirare le somme di una vita dedicata all’insegnamento e alla formazione delle persone.

(Quanto precede è fortemente ispirato ad un brano del libro di Claudia Piccardo e Gian Piero Quaglino “Scene di leadership. Come il cinema insegna a essere leader”. Raffaello Cortina Editore 2006) 

Ed ecco cosa arriva a consigliare Arnold Arnold in un libro del 1972 più volte ristampato, “I giochi dei bambini. Oltre 200 giochi da fare in casa e all’aperto.”

L’imbroglio

In molti ambienti barare al gioco è considerata pratica normale. Viene al tempo stesso considerato imperdonabile essere “colti nell’atto di”, mentre farla franca è indice di grande abilità. Spesso gli adulti pretendono la correttezza dei bambini, ma tacitamente accettano le regole su esposte anche nella vita reale; i bambini lo capiscono e se ne risentono. Più che fare una predica sulla necessità di evitare gli imbrogli, sarà meglio spiegare l’effetto negativo che l’imbroglio ha sullo svolgimento e godimento del gioco. Questo concetto è implicito nelle leggi e nel comportamento di società che realisticamente accettano l’imbroglio nel gioco come nella vita, a patto che sia soggetto a regole ben precise: l’umiliazione di chi vien colto con le mani nel sacco serve più di una proibizione destinata a restare lettera morta.

Proprio per questo io suggerisco che i bambini vengano invitati a barare nel gioco (specialmente quelli abbastanza grandi da apprezzare un simile suggerimento), con l’intesa che verranno banditi dal gioco se colti sul fatto. Di tanto in tanto organizzate un gioco in cui possono cercare di barare senza tema di penalizzazioni: ne risulterà un caos tale che saranno i bambini stessi a porre termine al gioco.

Per concludere, almeno per ora, questa serie di post sul “paradosso del baro”, cioè sul paradosso per cui chi infrange le regole fingendo di rispettarle viene in qualche modo accettato dalla comunità dei giocatori (a patto di non farsi scoprire, ma a volte anche in quei casi) un punto di vista diverso: quello di Duca Lamberti, protagonista di Venere Privata di Giorgio Scerbanenco:

“Non mi piacciono i bari”. Glielo spiegò meglio, doveva pur ringraziarla con un po’ di generalità di tutte le utili notizie che gli aveva dato. “La società è un gioco, vero? Le regole del gioco sono scritte nel codice penale, in quello civile e in un altro codice, piuttosto vago e non scritto, detto codice morale. Saranno codici molto discutibili, che devono essere continuamente migliorati, ma o si sta alle loro regole, o non ci si sta. L’unico trasgressore alle regole del gioco che io posso rispettare è il bandito col trombone che si nasconde per le montagne: lui non sta alle regole del gioco, lui, anzi dice chiaramente che non vuole giocare ala bella società e che le regole se le fa lui come vuole, col fucile. Ma i bari, no, li odio e li disprezzo. Oggi ci sono i banditi con l’ufficio legale a latere, imbrogliano, rubano, ammazzano, ma hanno già studiato la liea di difesa con il loro avvocato nel caso fossero scoperti e processati e non vengono mai puniti abbastanza. Vogliono che gli altri stiano al gioco, alle regole, ma loro non ci vogliono stare. Questo non mi va, questa gente non la sopporto, quando me la trovo intorno o ne sento solo l’odore, mi vengono i nervi.”

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