Cronaca di una stagione che si chiude, e di una comunità che resta


È finita anche questa stagione degli Open del Sabato.
E sapete che c’è? Mi dispiace.
Mi dispiace davvero.
Non per la classifica, né per la coppa del Gran Premio.
Mi dispiace perché, qui dentro, tra un cavallo messo male e un orologio che ticchetta più forte della pressione arteriosa, è successo qualcosa.
Ci si è voluti bene.
A modo nostro: con battute, sfide secche, prese in giro che — se non ci conosci — sembrano insulti.
Ma non lo erano.
Erano carezze travestite da sberle.
Nessuno si è preso troppo sul serio. Nessuno ha fatto il permaloso.
E questo, in un ambiente dove l’ego di solito pesa più del Re, è già un mezzo miracolo.
E sì, ci sono stati anche scacchisti eccellenti.
Con la scusa di un paio di partite, hanno portato classe, concentrazione e rispetto.
Gente che ti fa venir voglia di stare più dritto sulla sedia.
Come il Maestro Internazionale Spartaco Sarno, ex Campione Italiano Assoluto: tre partite, tre vittorie, tre formulari impeccabili lasciati sul tavolo come piccoli gioielli.
Una macchina da guerra con la cortesia di un gentiluomo.
O il Maestro Mauro Barletta: preciso, elegante, due partite vinte con stile e zero atteggiamenti da prima donna. Anche lui ha lasciato i formulari.
Non so se per archivio, nostalgia o per farci capire che il rispetto per il gioco si vede nei dettagli.
Questi sabati sono stati un miscuglio perfetto di tensione, ironia e sorprese.
Come quella partita assurda tra Spartacus e Mario: venti secondi contro cinque minuti.
Spartacus scrive le mosse mentre il tempo gli divora le caviglie.

Eppure gioca come se avesse due ore.
Non sbaglia, non si scompone. Vince.
Freddo come il ghiaccio, lucido come un bisturi.
Una statua con l’adrenalina sotto controllo.
Un esempio. Non solo di bravura, ma di testa.
E poi ci sono state le perle di umanità, travestite da pasticci.
Elena e Cecilia stanno giocando. Cecilia deve andare in bagno. Elena ferma tutto.
Gesto semplice, ma non scontato.

Entra in scena un eroe senza maschera: uno che vede la scacchiera abbandonata, pensa che la partita sia finita, si intenerisce, sistema i pezzi, spegne pure l’orologio.
Gesto cavalleresco, ma sbagliato.
Un disastro in piena regola.
La sala trattiene il fiato.
E invece? Nessun dramma.
Elena e Cecilia tornano, ricostruiscono tutto a memoria con una calma che neanche Kasparov in vacanza.
Riprendono la partita come se niente fosse.
Con dignità. Con precisione. Con classe.
E poi, ancora Cecilia.

Oggi ha scritto qualcosa che dovrebbe stare appeso in bacheca, a lettere cubitali.
Ha raccontato che da ragazzina, in Veneto, era brava a giocare.
Ma si arrabbiava quando perdeva, si vergognava del suo corpo, si sentiva sbagliata.
Le altre ragazze le sembravano più belle, più sicure.
E lei? Sempre un passo indietro. Sempre con l’idea che il problema fossero gli scacchi.
«Avevo cinque anni, era una domenica del ’98. Mi sono inginocchiata al tavolino basso del salotto e ho chiesto: “Cosa state facendo?” Mamma mi ha risposto: “Si chiamano scacchi.” Non voleva insegnarmi subito, voleva aspettare che fossi più grande. Ma ho insistito — testarda da sempre — e allora ha ceduto»
Così ha iniziato. E da allora non ha più smesso.
Tra lacrime, regine lanciate all’attacco troppo presto e una Scandinava giocata per sfida, la passione aveva già messo radici.
E poi, quasi sottovoce, ha detto che qui, con noi, ha trovato una speranza.
Che la sua casa scacchistica è Torino.
Che siete voi.
Ecco: questo non è un elogio agli scacchi.
È un riconoscimento al gruppo.
A quello che siete riusciti a costruire: un posto dove nessuno deve chiedere permesso per essere sé stesso.
Dove, se entra qualcuno col monocolo, non solo non lo guardate storto…
gli chiedete se vuole un caffè.
Avete fatto un buon lavoro.
E no, non parlo delle aperture.
Ci vediamo venerdì 28 per le premiazioni e la festa.
Niente giacche. Solo voglia di stare insieme.
Alla prossima stagione.
Più forte.
Più umana.
Più vera.
E se vi capita di scrivere la mossa prima di farla, fatelo.
Anche se vi restano venti secondi.
Perché a volte il coraggio sta nel prendersi il proprio tempo, anche quando il tempo sembra finito.
Post scriptum
Cecilia oggi ha 32 anni. Vive a Settimo Torinese, lavora in pubblica amministrazione, gioca a scacchi “con risultati alterni” e scrive con una leggerezza che ha dentro tutta la fatica del mondo. Dice che ama essere disabile. Non perché sia facile. Ma perché arrivare dove nessuno credeva possibile è, per lei, la vera forma del gioco. Come l’Oca, ma con la testa da scacchista.
Luigi Di Muro


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